I Viaggi di Marco Polo (illustrato)

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Cover of the book I Viaggi di Marco Polo (illustrato) by Jules Verne, Consumer Oriented Ebooks Publisher
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Author: Jules Verne ISBN: 1230000781756
Publisher: Consumer Oriented Ebooks Publisher Publication: November 18, 2015
Imprint: Language: Italian
Author: Jules Verne
ISBN: 1230000781756
Publisher: Consumer Oriented Ebooks Publisher
Publication: November 18, 2015
Imprint:
Language: Italian

I mercanti genovesi e veneziani non potevano rimanere indifferenti alle
esplorazioni che arditi viaggiatori tentavano nell'Asia centrale,
l'India e la China. Essi comprendevano che queste contrade offrirebbero
in breve un nuovo sfogo ai loro prodotti, e che, d'altra parte, utili
immensi si ricaverebbero dall'importazione in Occidente di mercanzie di
fabbricazione orientale. Gl'interessi del commercio dovevano quindi
lanciare dei nuovi cercatori sulle vie delle scoperte. Queste furono le
ragioni che decisero due nobili veneziani ad abbandonare la loro patria
ed a sfidare tutte le fatiche e tutti i pericoli di quei perigliosi
viaggi, allo scopo d'estendere le loro relazioni commerciali.

Questi due Veneziani appartenevano alla famiglia Polo, la quale traeva
origine da Sebenico, in Dalmazia, ed erasi stabilita sino dal 1033 in
Venezia. È nel secolo XIII che noi troviamo questa famiglia divisa in
due rami; uno dei quali abitava nella contrada di San Felice, l'altro in
quella di San Geremia.

I Polo di San Felice, datisi già da più anni al commercio, avevano in
esso trovata larghissima fonte di ricchezze, che aveanli posti a livello
delle famiglie patrizie di Venezia.

Nel 1260, i fratelli Niccolò e Matteo o Maffio, figliuoli di Andrea, che
già prima del 1250 avevano stabilito un banco a Costantinopoli, terra
più veneziana che greca dopo l'impresa del Dandolo[2], si recarono con
una paccotiglia considerevole di gioielli nel Sudac, in Crimea, ove la
loro casa possedeva un altro banco diretto da un loro fratello maggiore,
Andrea Polo. Da quel punto, risalendo verso il nord-est, e traversando
il paese di Comania, giunsero sul Volga, ove teneva il suo campo
Berke-Kan signore dei Tartari occidentali. Questo principe mongollo
accolse benissimo i due negozianti di Venezia, e comperò i gioielli che
gli offersero pel doppio del valore, facendo inoltre ad essi ricchissimi
doni.

Niccolò e Matteo rimasero un anno nel campo mongollo; finchè, nel 1262,
scoppiò una guerra tra Berke ed il principe Ulagù o Alau, signore dei
Tartari di Levante, e conquistatore della Persia. I due fratelli, non
volendo avventurarsi in mezzo a contrade battute dai Tartari,
preferirono recarsi a Boukhara, che era la principale residenza di
Berke, e colà rimasero tre anni e mezzo. Ma quando Berke fu vinto, e
presa la sua capitale, un'ambasciata d'Ulagù invitò i due Veneziani a
seguirli verso la residenza del Gran Kan[3] dei Tartari, che avrebbe
fatto loro ottima accoglienza. Kublai-Kan, quarto figlio di Gengis-Kan,
era imperatore della China, e teneva allora la residenza d'estate in
Mongolia, a Cai-ping-fu, sulla frontiera dell'impero Chinese.

I due mercanti veneziani partirono, e spesero un anno intero nel
traversare quell'immensa estensione di paese che divide Boukhara dai
confini settentrionali della China. Kublai-Kan fu lietissimo di ricevere
quegli stranieri, venuti da paesi occidentali. Fece loro molte feste,
e li interrogò con premura sugli avvenimenti che accadevano in
Europa, chiedendo molti particolari intorno agli imperatori e re, alla
loro amministrazione, ai loro metodi di guerra; poscia li intrattenne
lungo tempo del pontefice e degli affari della Chiesa latina.

Matteo e Niccolò, già pratici degli usi tartareschi e della lingua,
risposero francamente a tutte le domande dell'imperatore, al quale tanto
piacquero i due Veneziani, che pensò d'inviarli come suoi ambasciatori a
Sua Santità. I mercanti accettarono con riconoscenza, giacchè in tale
alta condizione il loro ritorno doveva effettuarsi in condizioni
vantaggiosissime.

Kublai-Kan fece stendere lettere in lingua turca, nelle quali chiedeva a
Sua Santità Clemente IV, d'inviargli cento missionari per convertire
gl'idolatri al cristianesimo; poscia licenziò i due Veneziani, dando ad
essi per compagno di viaggio uno de' suoi baroni, chiamato Cogatal, ed
incaricandoli di riportargli un vasetto dell'olio della lampada sacra
che arde continuamente sulla tomba di Gesù Cristo a Gerusalemme.

I due fratelli, muniti di passaporto su tavoletta d'oro, che metteva a
loro disposizione uomini e cavalli in tutta l'estensione dell'impero,
presero congedo dal Gran Kan e si misero in viaggio nel 1266. In breve
però il barone Cogatal cadde ammalato. I Veneziani, costretti a
separarsi da lui, proseguirono il loro cammino, e, malgrado gli aiuti
che ricevettero, impiegarono non meno di tre anni per giungere a
Giazza[4], porto dell'Armenia Minore. Da Giazza si portarono ad Acri,
ove arrivarono verso la fine dell'anno 1269. Colà seppero della morte di
papa Clemente IV, verso il quale erano diretti. Ma il legato apostolico
Tebaldo risiedeva in quella città; egli accolse i due Veneziani, e
sentendo quale fosse la missione di cui il Gran Kan li aveva incaricati,
li esortò ad attendere l'elezione del nuovo papa.

Matteo e Niccolò, assenti dalla loro patria da ben diciannove anni,
pensarono, intanto che il nuovo pontefice fosse eletto, di rivedere
Venezia e la famiglia. Si recarono a Negroponte, ove s'imbarcarono sopra
una nave, che li condusse direttamente alla loro città natale.

Sbarcando, Niccolò apprese la morte di sua moglie e la nascita di un
figlio, nato pochi mesi dopo la sua partenza, nel 1251. Quel figlio si
chiamava Marco. Egli è ben da credere che al dolore del marito dovesse
recare grande conforto la gioia del padre che trovava questo figliuolo,
quasi a tenergli luogo della donna perduta. Durante due anni i fratelli
Polo, cui stava a cuore di adempiere la loro missione, aspettarono a
Venezia l'elezione del nuovo papa. Ma poichè questa tardava, parve loro
di non poter più oltre differire il loro ritorno presso l'imperatore dei
Mongolli; partirono quindi per Acri, nell'aprile 1271, conducendo seco
il giovane Marco, che contava allora ben 19 anni. Ad Acri ritrovarono il
legato Tebaldo, che li autorizzò a recarsi a Gerusalemme a prendere
l'olio della lampada del Santo Sepolcro. Compiuta quella missione, i
Veneziani fecero ritorno ad Acri, e mancando ancora il pontefice,
chiesero al legato lettere per Kublai-Kan, nelle quali sembra fosse
accennata la morte di Clemente IV. Tebaldo consegnò le lettere, ed i due
fratelli tornarono a Giazza. Ivi, con grandissima gioja, seppero che il
legato Tebaldo era stato consacrato papa, sotto il nome di Gregorio X,
il 1 settembre 1271. Il nuovo pontefice li richiamò immediatamente, ed
il re d'Armenia pose una galera a loro disposizione, perchè potessero
recarsi più rapidamente ad Acri. Il papa li accolse con premura,
consegnò loro lettere per l'imperatore della China, diè loro la
compagnia di due frati predicatori, Niccolò da Vicenza[5] e Guglielmo da
Tripoli, e la sua benedizione.

Gli ambasciatori, accommiatatisi da Sua Santità, fecero ritorno ad Acri;
ma appena giunti in quella città, poco mancò non cadessero prigionieri
nelle mani di Boibar Bundoctari, Sultano mamelucco del Cairo, che
infestava allora l'Armenia. Spaventati i due frati predicatori di quel
brutto principio, rinunciarono a recarsi nella China, e lasciarono ai
Veneziani la cura di consegnare all'imperatore mongollo le lettere del
pontefice.

È qui che incominciano i grandi viaggi descritti da Marco Polo, dei
quali noi parleremo in progresso. Ha egli realmente visitato tutti i
paesi e tutte le città ch'egli descrive? No, senza dubbio; e nella sua
narrazione, scritta in francese sotto suo dettato da Rusticano da
Pisa[6], è formalmente dichiarato che «Marco Polo, savio e nobile
cittadino di Venezia, vide tutto co' propri occhi, e quello che non vide
lo seppe dalla bocca di uomini degni di fede.» Ma aggiungiamo che la
maggior parte delle città e paesi descritti da Marco Polo vennero
realmente da lui percorse. Seguiremo quindi l'itinerario com'è tracciato
nel suo racconto, indicando soltanto ciò che il celebre viaggiatore
seppe da altri durante le importanti missioni di cui lo incaricò
l'imperatore Kublai-Kan. In questo secondo viaggio i Veneziani non
seguirono esattamente la medesima strada che Matteo e Niccolò avevano
presa recandosi la prima volta verso l'imperatore della China. Essi
erano passati a settentrione dei monti Celesti, che sono i monti
Thiânscian-pe-lu; il che aveva allungato il loro cammino. Questa volta
piegarono a mezzodì pei monti stessi; eppure, benchè quella strada fosse
più corta dell'altra, impiegarono non meno di tre anni a percorrerla, a
cagione delle pioggie e degli straripamenti dei grandi fiumi. Sarà
facile seguire questo itinerario sopra una carta dell'Asia, dacchè ai
nomi antichi della storia di Marco Polo, non facili ad intendersi nel
suo libro, nel quale non è seguíto l'ordine del viaggio, ed è fatta
confusione delle cose udite e delle vedute, abbiamo sostituito
dappertutto i nomi esatti della cartografia moderna.

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I mercanti genovesi e veneziani non potevano rimanere indifferenti alle
esplorazioni che arditi viaggiatori tentavano nell'Asia centrale,
l'India e la China. Essi comprendevano che queste contrade offrirebbero
in breve un nuovo sfogo ai loro prodotti, e che, d'altra parte, utili
immensi si ricaverebbero dall'importazione in Occidente di mercanzie di
fabbricazione orientale. Gl'interessi del commercio dovevano quindi
lanciare dei nuovi cercatori sulle vie delle scoperte. Queste furono le
ragioni che decisero due nobili veneziani ad abbandonare la loro patria
ed a sfidare tutte le fatiche e tutti i pericoli di quei perigliosi
viaggi, allo scopo d'estendere le loro relazioni commerciali.

Questi due Veneziani appartenevano alla famiglia Polo, la quale traeva
origine da Sebenico, in Dalmazia, ed erasi stabilita sino dal 1033 in
Venezia. È nel secolo XIII che noi troviamo questa famiglia divisa in
due rami; uno dei quali abitava nella contrada di San Felice, l'altro in
quella di San Geremia.

I Polo di San Felice, datisi già da più anni al commercio, avevano in
esso trovata larghissima fonte di ricchezze, che aveanli posti a livello
delle famiglie patrizie di Venezia.

Nel 1260, i fratelli Niccolò e Matteo o Maffio, figliuoli di Andrea, che
già prima del 1250 avevano stabilito un banco a Costantinopoli, terra
più veneziana che greca dopo l'impresa del Dandolo[2], si recarono con
una paccotiglia considerevole di gioielli nel Sudac, in Crimea, ove la
loro casa possedeva un altro banco diretto da un loro fratello maggiore,
Andrea Polo. Da quel punto, risalendo verso il nord-est, e traversando
il paese di Comania, giunsero sul Volga, ove teneva il suo campo
Berke-Kan signore dei Tartari occidentali. Questo principe mongollo
accolse benissimo i due negozianti di Venezia, e comperò i gioielli che
gli offersero pel doppio del valore, facendo inoltre ad essi ricchissimi
doni.

Niccolò e Matteo rimasero un anno nel campo mongollo; finchè, nel 1262,
scoppiò una guerra tra Berke ed il principe Ulagù o Alau, signore dei
Tartari di Levante, e conquistatore della Persia. I due fratelli, non
volendo avventurarsi in mezzo a contrade battute dai Tartari,
preferirono recarsi a Boukhara, che era la principale residenza di
Berke, e colà rimasero tre anni e mezzo. Ma quando Berke fu vinto, e
presa la sua capitale, un'ambasciata d'Ulagù invitò i due Veneziani a
seguirli verso la residenza del Gran Kan[3] dei Tartari, che avrebbe
fatto loro ottima accoglienza. Kublai-Kan, quarto figlio di Gengis-Kan,
era imperatore della China, e teneva allora la residenza d'estate in
Mongolia, a Cai-ping-fu, sulla frontiera dell'impero Chinese.

I due mercanti veneziani partirono, e spesero un anno intero nel
traversare quell'immensa estensione di paese che divide Boukhara dai
confini settentrionali della China. Kublai-Kan fu lietissimo di ricevere
quegli stranieri, venuti da paesi occidentali. Fece loro molte feste,
e li interrogò con premura sugli avvenimenti che accadevano in
Europa, chiedendo molti particolari intorno agli imperatori e re, alla
loro amministrazione, ai loro metodi di guerra; poscia li intrattenne
lungo tempo del pontefice e degli affari della Chiesa latina.

Matteo e Niccolò, già pratici degli usi tartareschi e della lingua,
risposero francamente a tutte le domande dell'imperatore, al quale tanto
piacquero i due Veneziani, che pensò d'inviarli come suoi ambasciatori a
Sua Santità. I mercanti accettarono con riconoscenza, giacchè in tale
alta condizione il loro ritorno doveva effettuarsi in condizioni
vantaggiosissime.

Kublai-Kan fece stendere lettere in lingua turca, nelle quali chiedeva a
Sua Santità Clemente IV, d'inviargli cento missionari per convertire
gl'idolatri al cristianesimo; poscia licenziò i due Veneziani, dando ad
essi per compagno di viaggio uno de' suoi baroni, chiamato Cogatal, ed
incaricandoli di riportargli un vasetto dell'olio della lampada sacra
che arde continuamente sulla tomba di Gesù Cristo a Gerusalemme.

I due fratelli, muniti di passaporto su tavoletta d'oro, che metteva a
loro disposizione uomini e cavalli in tutta l'estensione dell'impero,
presero congedo dal Gran Kan e si misero in viaggio nel 1266. In breve
però il barone Cogatal cadde ammalato. I Veneziani, costretti a
separarsi da lui, proseguirono il loro cammino, e, malgrado gli aiuti
che ricevettero, impiegarono non meno di tre anni per giungere a
Giazza[4], porto dell'Armenia Minore. Da Giazza si portarono ad Acri,
ove arrivarono verso la fine dell'anno 1269. Colà seppero della morte di
papa Clemente IV, verso il quale erano diretti. Ma il legato apostolico
Tebaldo risiedeva in quella città; egli accolse i due Veneziani, e
sentendo quale fosse la missione di cui il Gran Kan li aveva incaricati,
li esortò ad attendere l'elezione del nuovo papa.

Matteo e Niccolò, assenti dalla loro patria da ben diciannove anni,
pensarono, intanto che il nuovo pontefice fosse eletto, di rivedere
Venezia e la famiglia. Si recarono a Negroponte, ove s'imbarcarono sopra
una nave, che li condusse direttamente alla loro città natale.

Sbarcando, Niccolò apprese la morte di sua moglie e la nascita di un
figlio, nato pochi mesi dopo la sua partenza, nel 1251. Quel figlio si
chiamava Marco. Egli è ben da credere che al dolore del marito dovesse
recare grande conforto la gioia del padre che trovava questo figliuolo,
quasi a tenergli luogo della donna perduta. Durante due anni i fratelli
Polo, cui stava a cuore di adempiere la loro missione, aspettarono a
Venezia l'elezione del nuovo papa. Ma poichè questa tardava, parve loro
di non poter più oltre differire il loro ritorno presso l'imperatore dei
Mongolli; partirono quindi per Acri, nell'aprile 1271, conducendo seco
il giovane Marco, che contava allora ben 19 anni. Ad Acri ritrovarono il
legato Tebaldo, che li autorizzò a recarsi a Gerusalemme a prendere
l'olio della lampada del Santo Sepolcro. Compiuta quella missione, i
Veneziani fecero ritorno ad Acri, e mancando ancora il pontefice,
chiesero al legato lettere per Kublai-Kan, nelle quali sembra fosse
accennata la morte di Clemente IV. Tebaldo consegnò le lettere, ed i due
fratelli tornarono a Giazza. Ivi, con grandissima gioja, seppero che il
legato Tebaldo era stato consacrato papa, sotto il nome di Gregorio X,
il 1 settembre 1271. Il nuovo pontefice li richiamò immediatamente, ed
il re d'Armenia pose una galera a loro disposizione, perchè potessero
recarsi più rapidamente ad Acri. Il papa li accolse con premura,
consegnò loro lettere per l'imperatore della China, diè loro la
compagnia di due frati predicatori, Niccolò da Vicenza[5] e Guglielmo da
Tripoli, e la sua benedizione.

Gli ambasciatori, accommiatatisi da Sua Santità, fecero ritorno ad Acri;
ma appena giunti in quella città, poco mancò non cadessero prigionieri
nelle mani di Boibar Bundoctari, Sultano mamelucco del Cairo, che
infestava allora l'Armenia. Spaventati i due frati predicatori di quel
brutto principio, rinunciarono a recarsi nella China, e lasciarono ai
Veneziani la cura di consegnare all'imperatore mongollo le lettere del
pontefice.

È qui che incominciano i grandi viaggi descritti da Marco Polo, dei
quali noi parleremo in progresso. Ha egli realmente visitato tutti i
paesi e tutte le città ch'egli descrive? No, senza dubbio; e nella sua
narrazione, scritta in francese sotto suo dettato da Rusticano da
Pisa[6], è formalmente dichiarato che «Marco Polo, savio e nobile
cittadino di Venezia, vide tutto co' propri occhi, e quello che non vide
lo seppe dalla bocca di uomini degni di fede.» Ma aggiungiamo che la
maggior parte delle città e paesi descritti da Marco Polo vennero
realmente da lui percorse. Seguiremo quindi l'itinerario com'è tracciato
nel suo racconto, indicando soltanto ciò che il celebre viaggiatore
seppe da altri durante le importanti missioni di cui lo incaricò
l'imperatore Kublai-Kan. In questo secondo viaggio i Veneziani non
seguirono esattamente la medesima strada che Matteo e Niccolò avevano
presa recandosi la prima volta verso l'imperatore della China. Essi
erano passati a settentrione dei monti Celesti, che sono i monti
Thiânscian-pe-lu; il che aveva allungato il loro cammino. Questa volta
piegarono a mezzodì pei monti stessi; eppure, benchè quella strada fosse
più corta dell'altra, impiegarono non meno di tre anni a percorrerla, a
cagione delle pioggie e degli straripamenti dei grandi fiumi. Sarà
facile seguire questo itinerario sopra una carta dell'Asia, dacchè ai
nomi antichi della storia di Marco Polo, non facili ad intendersi nel
suo libro, nel quale non è seguíto l'ordine del viaggio, ed è fatta
confusione delle cose udite e delle vedute, abbiamo sostituito
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