«Andarmene da questa luce. Non sentire più il rintocco delle ore, non sentire più niente. Nascondermi, sparire. Non essere più nessuno. E così poter sopportare tutto. Anche l’angoscia di fronte alla morte.» Dopo decenni di peregrinazioni, uno scrittore tedesco nato in Transilvania, e ora in esilio, ha trovato il suo rifugio tra i boschi della Garfagnana, vicino a Lucca. Ma proprio quando pensava di poter godere dei suoi ultimi anni in serenità, la morte della madre apre in lui una voragine incolmabile. Perché esistono assenze, scomparse, vuoti più presenti del presente. Defunti il cui ricordo impregna e impegna la mente più di quanto la loro concreta e tangibile vicinanza non avesse mai fatto nei giorni in cui eravamo loro accanto. È per questo che ora lui deve partire. Partire per esaudire le ultime volontà della madre. Partire per riempire il vuoto così opprimente. Si deve imbarcare in un viaggio a ritroso verso la sua patria perduta, la Transilvania, la terra dei suoi antenati, una terra di minoranze etniche, multiculturale, dove convivono tedeschi, ungheresi, rumeni. Un viaggio che per il protagonista diventa anche un’indagine di sé stesso e delle proprie radici, e che lo spinge ad affrontare il passato. Un passato che porta dentro di sé la memoria dolorosa dei lager, della seconda guerra mondiale, del nazismo, ma anche le contraddizioni e le ombre del dopoguerra e del regime comunista. Un romanzo che può essere considerato la continuazione ideale del Farmacista di Auschwitz, di cui riecheggia le atmosfere e i contenuti, soffermandosi in particolare sulla condizione dei tedeschi dell’Est, «tedeschi abbandonati nel Far East europeo», separati dai confini ma uniti da una grande civiltà letteraria e musical-filosofica. Con L’uomo senza radici Dieter Schlesak si conferma testimone poetico della crisi morale, culturale e sociale della Mitteleuropa, un mondo variopinto ormai sparito, qui indagato nelle sue pieghe più sofferenti così come nei momenti di pura luce. Una scrittura intesa quale unica ed estrema salvezza rispetto alla «furia del dileguare» che ha travolto un’epoca e una comunità.
«Andarmene da questa luce. Non sentire più il rintocco delle ore, non sentire più niente. Nascondermi, sparire. Non essere più nessuno. E così poter sopportare tutto. Anche l’angoscia di fronte alla morte.» Dopo decenni di peregrinazioni, uno scrittore tedesco nato in Transilvania, e ora in esilio, ha trovato il suo rifugio tra i boschi della Garfagnana, vicino a Lucca. Ma proprio quando pensava di poter godere dei suoi ultimi anni in serenità, la morte della madre apre in lui una voragine incolmabile. Perché esistono assenze, scomparse, vuoti più presenti del presente. Defunti il cui ricordo impregna e impegna la mente più di quanto la loro concreta e tangibile vicinanza non avesse mai fatto nei giorni in cui eravamo loro accanto. È per questo che ora lui deve partire. Partire per esaudire le ultime volontà della madre. Partire per riempire il vuoto così opprimente. Si deve imbarcare in un viaggio a ritroso verso la sua patria perduta, la Transilvania, la terra dei suoi antenati, una terra di minoranze etniche, multiculturale, dove convivono tedeschi, ungheresi, rumeni. Un viaggio che per il protagonista diventa anche un’indagine di sé stesso e delle proprie radici, e che lo spinge ad affrontare il passato. Un passato che porta dentro di sé la memoria dolorosa dei lager, della seconda guerra mondiale, del nazismo, ma anche le contraddizioni e le ombre del dopoguerra e del regime comunista. Un romanzo che può essere considerato la continuazione ideale del Farmacista di Auschwitz, di cui riecheggia le atmosfere e i contenuti, soffermandosi in particolare sulla condizione dei tedeschi dell’Est, «tedeschi abbandonati nel Far East europeo», separati dai confini ma uniti da una grande civiltà letteraria e musical-filosofica. Con L’uomo senza radici Dieter Schlesak si conferma testimone poetico della crisi morale, culturale e sociale della Mitteleuropa, un mondo variopinto ormai sparito, qui indagato nelle sue pieghe più sofferenti così come nei momenti di pura luce. Una scrittura intesa quale unica ed estrema salvezza rispetto alla «furia del dileguare» che ha travolto un’epoca e una comunità.