Author: | CLETTO ARRIGHI | ISBN: | 1230002449425 |
Publisher: | Jwarlal | Publication: | July 27, 2018 |
Imprint: | Language: | Italian |
Author: | CLETTO ARRIGHI |
ISBN: | 1230002449425 |
Publisher: | Jwarlal |
Publication: | July 27, 2018 |
Imprint: | |
Language: | Italian |
Nell'ottobre del 1866, moriva in Milano di pneumonite il vedovo conte Guglielmo O'Stiary dopo una fiera malattia di cinque giorni. Lasciava un milione al suo unico figlio Enrico, di passa vent'anni, col patto espresso nel testamento, ch'egli non potesse andar in possesso assoluto e dispotico della sostanza se non compiuti i ventiquattro, come portava la legge cho vigeva al tempo degli Austriaci.
In caso che l'erede avesse voluto fare opposizione al testamento il severo babbo lo privava di tutto, e sostituiva nella eredità: il Sacro Cuore di Gesù.
I titoli per diseredare suo figlio Enrico, secondo lui, non mancavano. Egli era fuggito dal collegio dei Barnabiti, adolescente ancora, per correre a combattere gli Austriaci con Garibaldi. Egli si mostrava irreligioso e liberale. Egli sarebbe riuscito, senza alcun dubbio, prodigo e dissoluto.
Il conte Guglielmo O'Stiary discendeva da una famiglia irlandese molto cattolica, stabilitasi a Milano nel secolo decimosesto.
Enrico O'Stiary ricevette la notizia della malattia mortale del babbo, quando questi era già spirato. La campagna contro gli Austriaci era finita. Chiese ed ottenne il congedo e partì, sperando di rivedere ancor vivo l'autore de' suoi giorni, che egli amava in cuor suo di grande e profondo affetto, malgrado la di lui severità piuttosto unica che rara. Quando giunse a Milano trovò che suo padre era già stato seppellito da una settimana.
E intanto l'esecutore testamentario, don Ignazio Martelli, di lui zio materno, aveva già pensato in fretta ed in furia a praticare certe operazioni e certe riduzioni nell'appartamento, nella cucina e nella scuderia, dalle quali si riprometteva di aumentare il reddito del pupillo di una mezza dozzina di mille lire all'anno. Il conte padre, anche dopo la morte della contessa sua moglie, e la partenza di Enrico per il collegio, non aveva mutati d'un pelo l'ordine e l'ampiezza dell'aristocratica magione. Ma ora? Che cosa avrebbe dovuto farne l'Enrico di sedici stanze? "Troppa grazia a sant'Antonio!", Fece dunque appiccar all'imposta del portone il suo bravo cartello col da affittarsi al presente, e dopo sei ore ebbe, il piacere di vedere, come disse lui, bruciato via l'appartamento e invaso da stranieri.
La creatura, che si dava maggiore affanno in palazzo, era la guardarobiera: una vecchia che chiamavano la balia, che aveva allattato il conte Guglielmo e portato in braccio il contino. Oh il suo non era certo l'affacendato ozio dei Ritratti Umani! Con che amore la buona donna mise in ordine il quartierino, che il tutore spilorcio aveva lasciato al di lei caro Enrico! Con che cura gli preparò la biancheria e fece rimetterle cortine alle finestre e gli fornì dell'occorrente la teletta, e dispose qua e là nelle camere dei fiori appena colti.
—Le pare, marchese, ch'egli sia alloggiato come un principino?—disse la signora Eugenia Martelli al marchese d'Arco, uscendo insieme dalle stanze destinate al giovine ereditiero.—Per dire la verità queste sono le camere migliori del vecchio appartamento. Che ne dici tu Elisa?
La Elisa, una fanciulla di poco più che quindici anni, una rosa thea appena sbucciata, una bellezzina molto distinta, con occhioni e denti da sbalordire, rispose con una piccola smorfia, un umh! che voleva come dire "per l'Enrico ci sarebbe voluto ben di più!"
—Io sono certo però,—disse il marchese d'Arco,—che l'Enrico avrà gran dispiacere di vedere affittate così subito e a della gente ignota, le camere dove tien raccolte le memorie della sua infanzia….
—Se sapesse quante volte ho detto anch'io questa cosa a mio marito!
Non è vero Elisa?
—Sì, certo; ma il babbo non vedeva che la necessità di cavare di più dal palazzo.
—La casa de' suoi maggiori,—riprese con grande nobiltà il marchese d'Arco—va tenuta da conto e il lasciarla invadere dal primo che capita è un mancarle di riguardo.
—Che vuole marchese? Lei sa bene che mio marito non le ha mai capite certe delicatezze.
—Come!—domandò questa volta ingenuamente l'Elisa.—Il babbo non ha mai capite le delicatezze?
—Zitta Elisa—disse la madre stringendo, nel suo il braccio di sua figlia. Poi di nuovo al marchese:
—Del resto l'Enrico sarà, come si dice, in famiglia. Tra il suo quartierino il nostro non c'è di mezzo che l'anticamera e questa sala in comune.
—E noi per far tutto questo tramestìo,—disse la Elisa mostrando un gran dispiacere nella voce—abbiam dovuto cambiare alloggio anche noi e andare verso il giardino.
—Povera ragazza, guarda mò,—fece ridendo il marchese d'Arco—dover cambiare alloggio!
—E non abbiamo tenuta neppur una straccia di finestra verso strada.
—Ah capisco ora! Neppur una straccia di finestra verso strada!
—Stare sul Corso e non poter andare al balcone, la mi concederà marchese che è una condanna…. Io non ho che il giardino da vedere.
—Ma il giardino ha anch'esso i suoi meriti! replicò il marchese sorridendo.—Questa primavera vedrai a sbucciar i fiori, a spuntar l'erba, a fiorire i tulipani.
—È vero,—sclamò la Elisa,—ma a me sarebbe piaciuto di più il poter vedere fiorir le rose in giardino….
—E spuntar i tulipani sul Corso?—domandò ridendo il marchese.
E, quasi per farsi perdonare la facezia un po' ardita, soggiunse subito:
—Basta! Non vedo l'ora di abbracciarlo quel caro ragazzo!
—Oh marchese!—sclamò la fanciulla.—Ora non è più tanto un ragazzo.
Ha quasi ventun anni ora. Cinque più di me.
—È vero! Sono tre anni ormai ch'io non lo vedo più.
—E che ne dice marchese di quel barocco d'un testamento di suo padre?—domandò la signora Martelli.
—Che vuole mai che le dica, cara signora? Quel povero conte Guglielmo era fatto così. Una testa debole, che non calcolava mai gli effetti delle sue azioni; pur di assecondare i moti dell'animo dispotico e pieno di ghiribizzi egli non badava a nulla.
—Ah, lei lo deve sapere, che fu tanto amico della povera contessa!
Il marchese mise un sospiro, e quasi per stornar l'attenzione da quella frase, ripigliò:
—A che ora crede lei che potrà arrivare l'Enrico?
—Io dico che sta per arrivare fra mezz'ora—sclamò la fanciulla.—Lo sento quì!—E posò la destra sul cuore.
—Ma zitto Elisa!
—La lasci dire. È così bella l'ingenuità a quindici anni.
—E quattro mesi!—sclamò la Elisa.
—Oh, ma non la creda poi tanto ingenua, sa?—fece ridendo la madre.—È un capetto, mah!
—Senti Elisa? Tua madre dice che sei un capetto…. mah!
—Miracolo che questa volta non abbia aggiunto anche l'ameno!
Il marchese rideva.
—Dunque io ripasserò stasera,—soggiunse egli—e se l'Enrico arrivasse prima, gli dica di venir subito da me a farsi vedere. Sans adieux. E tu Elisa ricordati di voler un po' di bene anche a questo povero vecchio che te ne vuol tanto!
—Oh, anch'io, anch'io, caro marchese,—rispose con espansione sincera la fanciulla.
—Ora andiamo a vestirci subito,—disse la madre quando il d'Arco fu uscito,—che non abbiamo tempo da perdere se non vogliamo salare la messa.
Nell'ottobre del 1866, moriva in Milano di pneumonite il vedovo conte Guglielmo O'Stiary dopo una fiera malattia di cinque giorni. Lasciava un milione al suo unico figlio Enrico, di passa vent'anni, col patto espresso nel testamento, ch'egli non potesse andar in possesso assoluto e dispotico della sostanza se non compiuti i ventiquattro, come portava la legge cho vigeva al tempo degli Austriaci.
In caso che l'erede avesse voluto fare opposizione al testamento il severo babbo lo privava di tutto, e sostituiva nella eredità: il Sacro Cuore di Gesù.
I titoli per diseredare suo figlio Enrico, secondo lui, non mancavano. Egli era fuggito dal collegio dei Barnabiti, adolescente ancora, per correre a combattere gli Austriaci con Garibaldi. Egli si mostrava irreligioso e liberale. Egli sarebbe riuscito, senza alcun dubbio, prodigo e dissoluto.
Il conte Guglielmo O'Stiary discendeva da una famiglia irlandese molto cattolica, stabilitasi a Milano nel secolo decimosesto.
Enrico O'Stiary ricevette la notizia della malattia mortale del babbo, quando questi era già spirato. La campagna contro gli Austriaci era finita. Chiese ed ottenne il congedo e partì, sperando di rivedere ancor vivo l'autore de' suoi giorni, che egli amava in cuor suo di grande e profondo affetto, malgrado la di lui severità piuttosto unica che rara. Quando giunse a Milano trovò che suo padre era già stato seppellito da una settimana.
E intanto l'esecutore testamentario, don Ignazio Martelli, di lui zio materno, aveva già pensato in fretta ed in furia a praticare certe operazioni e certe riduzioni nell'appartamento, nella cucina e nella scuderia, dalle quali si riprometteva di aumentare il reddito del pupillo di una mezza dozzina di mille lire all'anno. Il conte padre, anche dopo la morte della contessa sua moglie, e la partenza di Enrico per il collegio, non aveva mutati d'un pelo l'ordine e l'ampiezza dell'aristocratica magione. Ma ora? Che cosa avrebbe dovuto farne l'Enrico di sedici stanze? "Troppa grazia a sant'Antonio!", Fece dunque appiccar all'imposta del portone il suo bravo cartello col da affittarsi al presente, e dopo sei ore ebbe, il piacere di vedere, come disse lui, bruciato via l'appartamento e invaso da stranieri.
La creatura, che si dava maggiore affanno in palazzo, era la guardarobiera: una vecchia che chiamavano la balia, che aveva allattato il conte Guglielmo e portato in braccio il contino. Oh il suo non era certo l'affacendato ozio dei Ritratti Umani! Con che amore la buona donna mise in ordine il quartierino, che il tutore spilorcio aveva lasciato al di lei caro Enrico! Con che cura gli preparò la biancheria e fece rimetterle cortine alle finestre e gli fornì dell'occorrente la teletta, e dispose qua e là nelle camere dei fiori appena colti.
—Le pare, marchese, ch'egli sia alloggiato come un principino?—disse la signora Eugenia Martelli al marchese d'Arco, uscendo insieme dalle stanze destinate al giovine ereditiero.—Per dire la verità queste sono le camere migliori del vecchio appartamento. Che ne dici tu Elisa?
La Elisa, una fanciulla di poco più che quindici anni, una rosa thea appena sbucciata, una bellezzina molto distinta, con occhioni e denti da sbalordire, rispose con una piccola smorfia, un umh! che voleva come dire "per l'Enrico ci sarebbe voluto ben di più!"
—Io sono certo però,—disse il marchese d'Arco,—che l'Enrico avrà gran dispiacere di vedere affittate così subito e a della gente ignota, le camere dove tien raccolte le memorie della sua infanzia….
—Se sapesse quante volte ho detto anch'io questa cosa a mio marito!
Non è vero Elisa?
—Sì, certo; ma il babbo non vedeva che la necessità di cavare di più dal palazzo.
—La casa de' suoi maggiori,—riprese con grande nobiltà il marchese d'Arco—va tenuta da conto e il lasciarla invadere dal primo che capita è un mancarle di riguardo.
—Che vuole marchese? Lei sa bene che mio marito non le ha mai capite certe delicatezze.
—Come!—domandò questa volta ingenuamente l'Elisa.—Il babbo non ha mai capite le delicatezze?
—Zitta Elisa—disse la madre stringendo, nel suo il braccio di sua figlia. Poi di nuovo al marchese:
—Del resto l'Enrico sarà, come si dice, in famiglia. Tra il suo quartierino il nostro non c'è di mezzo che l'anticamera e questa sala in comune.
—E noi per far tutto questo tramestìo,—disse la Elisa mostrando un gran dispiacere nella voce—abbiam dovuto cambiare alloggio anche noi e andare verso il giardino.
—Povera ragazza, guarda mò,—fece ridendo il marchese d'Arco—dover cambiare alloggio!
—E non abbiamo tenuta neppur una straccia di finestra verso strada.
—Ah capisco ora! Neppur una straccia di finestra verso strada!
—Stare sul Corso e non poter andare al balcone, la mi concederà marchese che è una condanna…. Io non ho che il giardino da vedere.
—Ma il giardino ha anch'esso i suoi meriti! replicò il marchese sorridendo.—Questa primavera vedrai a sbucciar i fiori, a spuntar l'erba, a fiorire i tulipani.
—È vero,—sclamò la Elisa,—ma a me sarebbe piaciuto di più il poter vedere fiorir le rose in giardino….
—E spuntar i tulipani sul Corso?—domandò ridendo il marchese.
E, quasi per farsi perdonare la facezia un po' ardita, soggiunse subito:
—Basta! Non vedo l'ora di abbracciarlo quel caro ragazzo!
—Oh marchese!—sclamò la fanciulla.—Ora non è più tanto un ragazzo.
Ha quasi ventun anni ora. Cinque più di me.
—È vero! Sono tre anni ormai ch'io non lo vedo più.
—E che ne dice marchese di quel barocco d'un testamento di suo padre?—domandò la signora Martelli.
—Che vuole mai che le dica, cara signora? Quel povero conte Guglielmo era fatto così. Una testa debole, che non calcolava mai gli effetti delle sue azioni; pur di assecondare i moti dell'animo dispotico e pieno di ghiribizzi egli non badava a nulla.
—Ah, lei lo deve sapere, che fu tanto amico della povera contessa!
Il marchese mise un sospiro, e quasi per stornar l'attenzione da quella frase, ripigliò:
—A che ora crede lei che potrà arrivare l'Enrico?
—Io dico che sta per arrivare fra mezz'ora—sclamò la fanciulla.—Lo sento quì!—E posò la destra sul cuore.
—Ma zitto Elisa!
—La lasci dire. È così bella l'ingenuità a quindici anni.
—E quattro mesi!—sclamò la Elisa.
—Oh, ma non la creda poi tanto ingenua, sa?—fece ridendo la madre.—È un capetto, mah!
—Senti Elisa? Tua madre dice che sei un capetto…. mah!
—Miracolo che questa volta non abbia aggiunto anche l'ameno!
Il marchese rideva.
—Dunque io ripasserò stasera,—soggiunse egli—e se l'Enrico arrivasse prima, gli dica di venir subito da me a farsi vedere. Sans adieux. E tu Elisa ricordati di voler un po' di bene anche a questo povero vecchio che te ne vuol tanto!
—Oh, anch'io, anch'io, caro marchese,—rispose con espansione sincera la fanciulla.
—Ora andiamo a vestirci subito,—disse la madre quando il d'Arco fu uscito,—che non abbiamo tempo da perdere se non vogliamo salare la messa.